lunedì 19 giugno 2017

Intervista a Pasquale Frisenda

La manifestazione Palmanova – The Game Fortress si sta avvicinando e Pasquale Frisenda sarà uno dei suoi protagonisti. Maestro del chiaroscuro, il disegnatore milanese ha dimostrato tutto il suo valore su diverse testate bonelliane, seguendo un cammino dove il genere western la fa da padrone.

Sei entrato nella Sergio Bonelli Editore con il Ken Parker Magazine dopo aver lavorato per la Parker Editore di Berardi e Milazzo. Come ricordi quel periodo dal punto di vista professionale e quale è stato il tuo approccio a Ken Parker, personaggio unico nel panorama del western a fumetti?
Ken Parker lo scoprii intorno ai 15 anni, con due albi trovati per caso in una bancarella. Uno di questi era il numero 5, Chemako, colui che non ricorda, e l'effetto che mi fece fu enorme. Una storia davvero emozionante, profonda e molto intensa, resa splendidamente da dei disegni incredibilmente pieni di atmosfera e pathos.
Quella storia mi fece poi ricercare febbrilmente ogni albo della serie (una delle collane a fumetti più significative nella storia del fumetto italiano), e mettere meglio a fuoco il lavoro e il talento dei suoi due autori, che già avevo intuito leggendo solo quell'albo e verso cui ho sempre poi mantenuto quell'opinione iniziale. L'aver potuto collaborare alla serie all'inizio della mia carriera fu per me un grande privilegio, oltre che una grande scuola di formazione, considerando le molte difficoltà che una serie come quella di Ken Parker propone, in fatto di ricerca e approfondimento di molti aspetti della narrazione a fumetti. E' stato un impegno davvero totalizzante, anche perché ero un disegnatore alle prime armi che si confrontava con un personaggio così importante e con una serie davvero ricca di esigenze e di problematiche da affrontare e a cui prestare molta attenzione, a cominciare proprio dalla ricerca iconografica e finendo alla cura per l'espressività e la recitazione dei personaggi. Mi ci sono accostato con un certo timore ma anche con la massima disponibilità, anche perché ero comunque cosciente della grande opportunità professionale che per me rappresentava quell'esperienza. Il passaggio con la rivista che conteneva le nuove storie di KP alla Bonelli mi aprì di conseguenza tante possibilità diverse che non avevo fino ad allora mai considerato. Fu un periodo molto intenso e importante per la mia vita professionale.



Ti sei affermato alla Bonelli con Magico Vento di Gianfranco Manfredi, di cui hai disegnato diverse copertine e molti albi, tra cui uno del fondamentale ciclo della Guerra delle Black Hills (poi ristampato in volume cartonato). Come hai affrontato questa rilettura del genere western, sapiente intreccio fra le tradizioni soprannaturali dei nativi, la storia tragica della Frontiera e il gothic lovecraftiano?


Magico Vento è stata una scommessa editoriale coraggiosa e anche azzardata, a cominciare dal fatto di presentare una collana western in un periodo storico come il nostro, dove di sicuro non è più un genere molto popolare e diffuso, e, a questo, si deve poi aggiungere l'anomalia di un protagonista difficilmente classificabile, spesso problematico e in preda a suoi dilemmi, sempre diviso tra due mondi, quello dell'uomo bianco, da cui proviene, e quello dei nativi americani, da cui è stato accolto.
Una scommessa difficile ma, per molti versi, vinta, e non solo per la durata della testata in edicola ma anche perché ha fatto breccia nel cuore di molti lettori, ancora evidentemente in cerca di un certo tipo di storie e atmosfere. In "Magico Vento", uno degli impegni più complicati da risolvere fu di riuscire a visualizzare e rendere efficaci le molte creature ritratte nelle storie più oniriche e legate al folklore degli indiani d'America, visto che di materiale visivo in tal senso non ne esiste molto, e lui doveva essere disegnato in modo da comunicare il fatto che fosse un uomo agile e nervoso, ma anche cercando di conferirgli una certa solennità, per il suo ruolo di sciamano. Le varie commistioni di elementi narrativi così ricchi, tra il western, le tradizioni e il folklore dei nativi, la magia, l'occulto e il gotico, permisero alla serie di essere sempre viva e vitale, riuscendo ad offrire ai suoi lettori una lettura molto particolare della storia del West.




Patagonia è decisamente uno dei Texoni migliori (meritando infatti la ristampa in volume cartonato), grazie ai tuoi disegni e alla sceneggiatura di Mauro Boselli (curatore della collana di Tex). Non si può dire che tu non abbia dimostrato coraggio nell'affrontare il mostro sacro del fumetto italiano con un albo speciale. Sfida vinta alla grande e confermata con le successive prove nella collana regolare. Ma come si disegna Tex?


Patagonia è stato un progetto davvero stimolante ma che ha offerto non poche difficoltà, a cominciare dal fatto che la storia, svolgendosi nell'Argentina della fine dell'800, annullava ogni possibile documentazione sul West che avevo già a disposizione e si trattava quindi di cominciare da zero.
Fu difficile mettere a fuoco gli ambienti, naturali e non, le divise e le armi dei soldati come anche i costumi e gli strumenti dei gauchos (i cow boys di quelle terre). In questo mi aiutarono molto due film e altra documentazione messami a disposizione da Sergio Bonelli (che seguì passo passo la lavorazione del volume), il sostegno di Mauro Boselli e una fitta ricerca in quella direzione operata nei primi mesi di lavoro ma poi proseguita per tutta la durata della lavorazione del volume (parte della documentazione trovata non si riuscì ad utilizzarla nella storia, e, per alcuni fatti storici trovati, mi dispiacque molto). Una svolta importante me la diede la scoperta, grazie al consiglio di un collega, del lavoro di un pittore argentino, Juan Manuel Blanes, che fu per me una vera bibbia da cui estrarre informazioni e dettagli (la necessità di risultare realistici era forte anche per la trama della storia, che prendeva in esame un periodo storico molto particolare dell'Argentina, ricco di eventi cruenti e drammatici). La realizzazione di quel lavoro fu molto impegnativa, e, alla fine, solo dopo la lettura redazionale di Sergio Bonelli, per il parere che espresse, mi resi conto che per forse lo sforzo fatto su ogni tavola ne era valsa la pena e il risultato era come avevo sperato.
Anche il riscontro tra i lettori fu confortante, anche perché trovarono una storia anomala e ricca di momenti inediti nella serie di Tex (anche emotivamente parlando). Personalmente, poi, mi fecero piacere alcuni pareri e apprezzamenti arrivatimi da alcuni colleghi, che mi rincuorarono davvero molto sulle scelte fatte nelle tavole.
In particolar modo fu l'inaspettato commento ricevuto da Sergio Toppi (considerarmi collega di uno così a me fa strano, comunque), che sottolineò l'efficacia con cui, secondo lui, "erano state rappresentate le tribù dei nativi di quelle zone, che erano popolazioni molto povere e quindi complicate da rappresentare conferendogli un carattere di dignità vera e del fascino nei loro costumi, cosa più facile se fossero stati degli Incas", e detto da un autore come lo era Toppi, così capace di ritrarre i popoli del mondo, fu per me un regalo enorme.
In definitiva, Patagonia è stato di sicuro un'importante tappa nella mia carriera, ma anche una delle migliori esperienze lavorative mai affrontate. Disegnare "Tex" è un impegno particolare, per cui, come capita per ogni personaggio che si affronta, bisogna cercare di mettere a fuoco le esigenze della collana e del protagonista. In "Tex", ad esempio, occorre riuscire a rappresentarlo per quello che è, un eroe, senza per questo caricarlo sempre di eccessiva enfasi ma allo stesso tempo cercando di far restare la luce dei riflettori sempre su di lui, perché, al di là della storia raccontata, Tex è e resta il pilastro assoluto della serie, e quindi deve essere rappresentato e fatto intendere come tale.


Non c'è solo western nel tuo curriculum bonelliano. Accanto ad un episodio del Dylan Dog Color Fest del 2010, mi ha colpito molto Sangue e ghiaccio, albo della collana Le Storie, pubblicato nel 2016 su sceneggiatura di Tito Faraci. Un'avventura straniante, in cui reale e irreale sfumano i rispettivi confini, anche grazie alle tue mezzetinte e ad un uso particolare del colore rosso. Raccontaci di quest'esperienza.


Il progetto per Sangue e ghiaccio ha avuto una genesi un po' particolare e discretamente lunga. Era nato intorno al 2004, dopo una conversazione fatta con Tito Faraci su un articolo trovato su una rivista, e da lì pensammo che si poteva svilupparne una storia.
L'idea iniziale fu quella di tentare la strada del mercato francese, perché eravamo convinti che fosse la dimensione migliore per proporre una storia simile, ma dopo diversi tira e molla avuti con alcuni editori e durati alcuni anni, abbandonammo l'idea. Tempo dopo, a causa dell'apertura in Bonelli della collana "Le Storie" in cui pensavo di poter proporre qualcosa, a me e a Faraci ci venne offerta la possibilità di realizzare quella storia, cosa che accettammo di buon grado.
L'albo in sé ha avuto una gestazione e uno svolgimento non facili, a causa anche delle tante componenti narrative che lo formano, e forse in alcune parti si nota anche, ma nel complesso è un lavoro verso cui ho molto affetto, perché mi è stata concessa una libertà espressiva non sempre facile da avere. In definitiva, è stato un esperimento molto interessante.


Sei un grande appassionato di fantascienza: non a caso il tuo primo incarico professionale fu Tenebra, storia poi pubblicata sulla rivista di science-fiction Cyborg della Star Comics. Da dove nasce questa tua grande passione? Non c'è la possibilità di vedere un giorno la tua firma sui disegni di una storia di Nathan Never?


La fantascienza è una passione che mi porto dentro da tempo, maturata probabilmente fin da ragazzino a causa delle tante cose che vedevo in Tv, tra film, telefilm e cartoni animati, a cui si devono aggiungere fumetti e romanzi. Ho cercato in più occasioni di trovare in quel genere un progetto a cui collaborare, ma per ora senza molta fortuna, anche se a volte la cosa sembrava certa. Non so se accadrà in futuro, ma ci tenterò ancora. Che sia Nathan Never o altro si vedrà.


Credo che la frequentazione dello Studio Comix di Carlo Ambrosini, Giampiero Casertano ed Enea Riboldi sia stata fondamentale per il processo di crescita di un giovane aspirante disegnatore. Quale fu l'insegnamento più prezioso che ti lasciarono?


Qui c'è un piccolo equivoco, nel senso che la mia frequentazione dello Studio Comix fu assolutamente sporadica, ma, anche in quel modo, fu per me comunque importante, sia per i consigli (e le critiche) ricevuti sulle tavole che, forse ancora di più, perché vedevo all'opera quei disegnatori, cercando di apprendere tutto quello che potevo anche in quel modo.
Venire a contatto con un vero ambiente professionale, soprattutto in quel periodo (potevo avere 18 o 19 anni), fu un'esperienza molto rilevante, sotto molti punti di vista.


Al di là delle competenze tecniche, quali sono gli strumenti cui deve attingere un bravo disegnatore per svolgere al meglio il proprio lavoro?


Il fumetto si basa fondamentalmente sul raccontare una storia, quindi il disegnatore deve mettersi in quell'ottica di cose. Anche se è importante disegnare correttamente e cercare di sviluppare un disegno efficace e comunicativo, ancora di più si deve tenere conto di come raccontare al meglio la storia che si sta trattando, facendo costante attenzione a diversi fattori in più, come scegliere l'inquadratura migliore per le singole vignette, la recitazione dei personaggi, sia come espressioni facciali che come atteggiamento, e, non ultima, la cura della documentazione, che può andare anche oltre la normale ricerca di armi, ambienti e abbigliamenti, ma arrivare anche a dare ai lettori tutta una serie di informazioni aggiuntive, più accurate e precise, sugli argomenti trattati.
Un disegnatore di fumetti che cura tutti questi aspetti è quello che fa (o cerca di fare) al meglio il proprio lavoro.


Puoi già svelarci adesso a quale nuovo progetto stai lavorando o vuoi attendere di farlo durante Palmanova – The Game Fortress?


Ho appena finito una breve storia di Tex, che uscirà dopo l'estate in un numero della collana Tex Color, ma che, per questioni di tempistiche, non ho avuto la possibilità di colorarla da me, e ora sono al lavoro su un nuovo progetto, di tematica sempre western ma che conterrà non poche novità a livello narrativo, e che uscirà entro l'anno prossimo.

1 commento:

  1. Diventa difficile, dopo un po' di tempo che conosci Pasquale Frisenda tesserne le lodi. Fra l'altro chi scrive, può solo vantare una grande passione per la letteratura avventurosa, non certo la capacità e la qualifica di critico dell'immagine. Posso però dire, e lo dico, che Patagonia è molto più di un "bel fumetto". Classificarlo a questa stregua sarebbe riduttivo, per chi ha avuto o avrà la bontà di leggerlo, ma in particolar modo per il suo autore. Sfogliando, e leggendo l'opera, perchè di opera si tratta, impossibile non accorgersi di quanto lavoro filologico sia stato fatto. Pasquale comunque, fà sfoggio di un'ulteriore dote, quella di regista; alcune inquadrature infatti sarebbero utile e gradito esempio in una scuola di cinematografia. Un presente attuale, parlando di grafica, quello proposto da Frisenda; attuale, ma che non trascura completamente il passato; sicuramente base solida e sicura per prospettive future. Ci sarebbe ancora molto da aggiungere, ma in causa dell'entusiasmo, mio, nei suoi confronti, non vorrei creare inutili malintesi. Chiudo con un consiglio, a tutti gli amanti del fumetto: "chi non ha ancora avuto il piacere di sfogliare "Patagonia" corra immediatamente ai ripari. Lo faccia e sarà per sempre grato a Pasquale Frisenda e magari, un po' anche a chi scrive! VittS

    RispondiElimina