La manifestazione
Palmanova – The Game Fortress
si sta avvicinando e Pasquale Frisenda sarà uno dei suoi
protagonisti. Maestro del chiaroscuro, il disegnatore milanese ha
dimostrato tutto il suo valore su diverse testate bonelliane,
seguendo un cammino dove il genere western la fa da padrone.
Ken
Parker lo scoprii intorno ai 15 anni, con due albi trovati per caso
in una bancarella. Uno di questi era il numero 5, Chemako, colui
che non ricorda, e l'effetto che mi fece fu enorme. Una storia
davvero emozionante, profonda e molto intensa, resa splendidamente da
dei disegni incredibilmente pieni di atmosfera e pathos.
Ti sei affermato alla Bonelli con Magico Vento di Gianfranco Manfredi, di cui hai disegnato diverse copertine e molti albi, tra cui uno del fondamentale ciclo della Guerra delle Black Hills (poi ristampato in volume cartonato). Come hai affrontato questa rilettura del genere western, sapiente intreccio fra le tradizioni soprannaturali dei nativi, la storia tragica della Frontiera e il gothic lovecraftiano?
Quella storia mi fece poi
ricercare febbrilmente ogni albo della serie (una delle collane a
fumetti più significative nella storia del fumetto italiano), e
mettere meglio a fuoco il lavoro e il talento dei suoi due autori,
che già avevo intuito leggendo solo quell'albo e verso cui ho sempre
poi mantenuto quell'opinione iniziale. L'aver potuto collaborare alla
serie all'inizio della mia carriera fu per me un grande privilegio,
oltre che una grande scuola di formazione, considerando le molte
difficoltà che una serie come quella di Ken Parker propone, in fatto
di ricerca e approfondimento di molti aspetti della narrazione a
fumetti. E' stato un impegno davvero totalizzante, anche perché ero
un disegnatore alle prime armi che si confrontava con un personaggio
così importante e con una serie davvero ricca di esigenze e di
problematiche da affrontare e a cui prestare molta attenzione, a
cominciare proprio dalla ricerca iconografica e finendo alla cura per
l'espressività e la recitazione dei personaggi. Mi ci sono accostato
con un certo timore ma anche con la massima disponibilità, anche
perché ero comunque cosciente della grande opportunità
professionale che per me rappresentava quell'esperienza. Il passaggio
con la rivista che conteneva le nuove storie di KP alla Bonelli mi
aprì di conseguenza tante possibilità diverse che non avevo fino ad
allora mai considerato. Fu un periodo molto intenso e importante per
la mia vita professionale.
Ti sei affermato alla Bonelli con Magico Vento di Gianfranco Manfredi, di cui hai disegnato diverse copertine e molti albi, tra cui uno del fondamentale ciclo della Guerra delle Black Hills (poi ristampato in volume cartonato). Come hai affrontato questa rilettura del genere western, sapiente intreccio fra le tradizioni soprannaturali dei nativi, la storia tragica della Frontiera e il gothic lovecraftiano?
Magico Vento è
stata una scommessa editoriale coraggiosa e anche azzardata, a
cominciare dal fatto di presentare una collana western in un periodo
storico come il nostro, dove di sicuro non è più un genere molto
popolare e diffuso, e, a questo, si deve poi aggiungere l'anomalia di
un protagonista difficilmente classificabile, spesso problematico e
in preda a suoi dilemmi, sempre diviso tra due mondi, quello
dell'uomo bianco, da cui proviene, e quello dei nativi americani, da
cui è stato accolto.
Una scommessa difficile
ma, per molti versi, vinta, e non solo per la durata della testata in
edicola ma anche perché ha fatto breccia nel cuore di molti lettori,
ancora evidentemente in cerca di un certo tipo di storie e atmosfere.
In "Magico Vento", uno degli impegni più complicati da
risolvere fu di riuscire a visualizzare e rendere efficaci le molte
creature ritratte nelle storie più oniriche e legate al folklore
degli indiani d'America, visto che di materiale visivo in tal senso
non ne esiste molto, e lui doveva essere disegnato in modo da
comunicare il fatto che fosse un uomo agile e nervoso, ma anche
cercando di conferirgli una certa solennità, per il suo ruolo di
sciamano. Le varie commistioni di elementi narrativi così ricchi,
tra il western, le tradizioni e il folklore dei nativi, la magia,
l'occulto e il gotico, permisero alla serie di essere sempre viva e
vitale, riuscendo ad offrire ai suoi lettori una lettura molto
particolare della storia del West.
Patagonia è decisamente uno dei Texoni
migliori (meritando infatti la ristampa in volume cartonato), grazie
ai tuoi disegni e alla sceneggiatura di Mauro Boselli (curatore
della collana di Tex). Non si può dire che tu non abbia dimostrato
coraggio nell'affrontare il mostro sacro del fumetto italiano con un
albo speciale. Sfida vinta alla grande e confermata con le
successive prove nella collana regolare. Ma come si disegna Tex?
Patagonia è
stato un progetto davvero stimolante ma che ha offerto non poche
difficoltà, a cominciare dal fatto che la storia, svolgendosi
nell'Argentina della fine dell'800, annullava ogni possibile
documentazione sul West che avevo già a disposizione e si trattava
quindi di cominciare da zero.
Fu difficile mettere a
fuoco gli ambienti, naturali e non, le divise e le armi dei soldati
come anche i costumi e gli strumenti dei gauchos (i cow boys di
quelle terre). In questo mi aiutarono molto due film e altra
documentazione messami a disposizione da Sergio Bonelli (che seguì
passo passo la lavorazione del volume), il sostegno di Mauro Boselli
e una fitta ricerca in quella direzione operata nei primi mesi di
lavoro ma poi proseguita per tutta la durata della lavorazione del
volume (parte della documentazione trovata non si riuscì ad
utilizzarla nella storia, e, per alcuni fatti storici trovati, mi
dispiacque molto). Una svolta importante me la diede la scoperta,
grazie al consiglio di un collega, del lavoro di un pittore
argentino, Juan Manuel Blanes, che fu per me una vera bibbia da cui
estrarre informazioni e dettagli (la necessità di risultare
realistici era forte anche per la trama della storia, che prendeva in
esame un periodo storico molto particolare dell'Argentina, ricco di
eventi cruenti e drammatici). La realizzazione di quel lavoro fu
molto impegnativa, e, alla fine, solo dopo la lettura redazionale di
Sergio Bonelli, per il parere che espresse, mi resi conto che per
forse lo sforzo fatto su ogni tavola ne era valsa la pena e il
risultato era come avevo sperato.
Anche il riscontro tra i
lettori fu confortante, anche perché trovarono una storia anomala e
ricca di momenti inediti nella serie di Tex (anche emotivamente
parlando). Personalmente, poi, mi fecero piacere alcuni pareri e
apprezzamenti arrivatimi da alcuni colleghi, che mi rincuorarono
davvero molto sulle scelte fatte nelle tavole.
In particolar modo fu
l'inaspettato commento ricevuto da Sergio Toppi (considerarmi collega
di uno così a me fa strano, comunque), che sottolineò l'efficacia
con cui, secondo lui, "erano state rappresentate le tribù dei
nativi di quelle zone, che erano popolazioni molto povere e quindi
complicate da rappresentare conferendogli un carattere di dignità
vera e del fascino nei loro costumi, cosa più facile se fossero
stati degli Incas", e detto da un autore come lo era Toppi, così
capace di ritrarre i popoli del mondo, fu per me un regalo enorme.
In definitiva, Patagonia
è stato di sicuro un'importante tappa nella mia carriera, ma anche
una delle migliori esperienze lavorative mai affrontate. Disegnare
"Tex" è un impegno particolare, per cui, come capita per
ogni personaggio che si affronta, bisogna cercare di mettere a fuoco
le esigenze della collana e del protagonista. In "Tex", ad
esempio, occorre riuscire a rappresentarlo per quello che è, un
eroe, senza per questo caricarlo sempre di eccessiva enfasi ma allo
stesso tempo cercando di far restare la luce dei riflettori sempre su
di lui, perché, al di là della storia raccontata, Tex è e resta il
pilastro assoluto della serie, e quindi deve essere rappresentato e
fatto intendere come tale.
Non c'è solo
western nel tuo curriculum bonelliano. Accanto ad un episodio del
Dylan Dog Color Fest del 2010, mi ha colpito molto Sangue
e ghiaccio, albo della collana Le Storie, pubblicato nel
2016 su sceneggiatura di Tito Faraci. Un'avventura straniante, in
cui reale e irreale sfumano i rispettivi confini, anche grazie alle
tue mezzetinte e ad un uso particolare del colore rosso. Raccontaci
di quest'esperienza.
Il progetto per
Sangue e ghiaccio ha avuto una genesi un po' particolare e
discretamente lunga. Era nato intorno al 2004, dopo una conversazione
fatta con Tito Faraci su un articolo trovato su una rivista, e da lì
pensammo che si poteva svilupparne una storia.
L'idea iniziale fu quella
di tentare la strada del mercato francese, perché eravamo convinti
che fosse la dimensione migliore per proporre una storia simile, ma
dopo diversi tira e molla avuti con alcuni editori e durati alcuni
anni, abbandonammo l'idea. Tempo dopo, a causa dell'apertura in
Bonelli della collana "Le Storie" in cui pensavo di poter
proporre qualcosa, a me e a Faraci ci venne offerta la possibilità
di realizzare quella storia, cosa che accettammo di buon grado.
L'albo in sé ha avuto
una gestazione e uno svolgimento non facili, a causa anche delle
tante componenti narrative che lo formano, e forse in alcune parti si
nota anche, ma nel complesso è un lavoro verso cui ho molto affetto,
perché mi è stata concessa una libertà espressiva non sempre
facile da avere. In definitiva, è stato un esperimento molto
interessante.
Sei un grande
appassionato di fantascienza: non a caso il tuo primo incarico
professionale fu Tenebra,
storia poi pubblicata sulla rivista di science-fiction Cyborg
della Star Comics. Da dove nasce questa tua grande passione? Non c'è
la possibilità di vedere un giorno la tua firma sui disegni di una
storia di Nathan
Never?
La fantascienza è
una passione che mi porto dentro da tempo, maturata probabilmente fin
da ragazzino a causa delle tante cose che vedevo in Tv, tra film,
telefilm e cartoni animati, a cui si devono aggiungere fumetti e
romanzi. Ho cercato in più occasioni di trovare in quel genere un
progetto a cui collaborare, ma per ora senza molta fortuna, anche se
a volte la cosa sembrava certa. Non so se accadrà in futuro, ma ci
tenterò ancora. Che sia Nathan Never o altro si vedrà.
Qui c'è un piccolo
equivoco, nel senso che la mia frequentazione dello Studio Comix
fu assolutamente sporadica, ma, anche in quel modo, fu per me
comunque importante, sia per i consigli (e le critiche) ricevuti
sulle tavole che, forse ancora di più, perché vedevo all'opera quei
disegnatori, cercando di apprendere tutto quello che potevo anche in
quel modo.
Venire a contatto con un
vero ambiente professionale, soprattutto in quel periodo (potevo
avere 18 o 19 anni), fu un'esperienza molto rilevante, sotto molti
punti di vista.
Il fumetto si basa
fondamentalmente sul raccontare una storia, quindi il disegnatore
deve mettersi in quell'ottica di cose. Anche se è importante
disegnare correttamente e cercare di sviluppare un disegno efficace e
comunicativo, ancora di più si deve tenere conto di come raccontare
al meglio la storia che si sta trattando, facendo costante attenzione
a diversi fattori in più, come scegliere l'inquadratura migliore per
le singole vignette, la recitazione dei personaggi, sia come
espressioni facciali che come atteggiamento, e, non ultima, la cura
della documentazione, che può andare anche oltre la normale ricerca
di armi, ambienti e abbigliamenti, ma arrivare anche a dare ai
lettori tutta una serie di informazioni aggiuntive, più accurate e
precise, sugli argomenti trattati.
Un disegnatore di fumetti
che cura tutti questi aspetti è quello che fa (o cerca di fare) al
meglio il proprio lavoro.
Ho appena finito una breve storia di Tex, che uscirà dopo l'estate
in un numero della collana Tex Color,
ma che, per questioni di tempistiche, non ho avuto la possibilità di
colorarla da me, e ora sono al lavoro su un nuovo progetto, di
tematica sempre western ma che conterrà non poche novità a livello
narrativo, e che uscirà entro l'anno prossimo.
Diventa difficile, dopo un po' di tempo che conosci Pasquale Frisenda tesserne le lodi. Fra l'altro chi scrive, può solo vantare una grande passione per la letteratura avventurosa, non certo la capacità e la qualifica di critico dell'immagine. Posso però dire, e lo dico, che Patagonia è molto più di un "bel fumetto". Classificarlo a questa stregua sarebbe riduttivo, per chi ha avuto o avrà la bontà di leggerlo, ma in particolar modo per il suo autore. Sfogliando, e leggendo l'opera, perchè di opera si tratta, impossibile non accorgersi di quanto lavoro filologico sia stato fatto. Pasquale comunque, fà sfoggio di un'ulteriore dote, quella di regista; alcune inquadrature infatti sarebbero utile e gradito esempio in una scuola di cinematografia. Un presente attuale, parlando di grafica, quello proposto da Frisenda; attuale, ma che non trascura completamente il passato; sicuramente base solida e sicura per prospettive future. Ci sarebbe ancora molto da aggiungere, ma in causa dell'entusiasmo, mio, nei suoi confronti, non vorrei creare inutili malintesi. Chiudo con un consiglio, a tutti gli amanti del fumetto: "chi non ha ancora avuto il piacere di sfogliare "Patagonia" corra immediatamente ai ripari. Lo faccia e sarà per sempre grato a Pasquale Frisenda e magari, un po' anche a chi scrive! VittS
RispondiElimina